COVID-19, la realtà delle terapie intensive nella seconda ondata della pandemia: lo sguardo di un medico
La realtà delle terapie intensive nella seconda ondata COVID-19. Il 30 gennaio 2020 l’Organizzazione mondiale della salute (OMS) annuncia un’emergenza sanitaria nel mondo per un nuovo coronavirus causa di una malattia chiamata Covid-19 comparsa in Cina, a Wuhan, il 17 novembre 2019 (data del primo caso dichiarato e non si quanti già erano stati colpiti prima).
Poi, l’11 marzo 2020, l’OMS annuncia che il mondo è sotto l’attacco di una pandemia. E l’Italia si ritrova impreparata alla prima ondata: numero di posti letto in rianimazione insufficienti, mancanza di ventilatori meccanici, mancanza di materiali protettivi per operatori sanitari e popolazione.
In parte, a parole, ci si arrampica sugli specchi per non mettere in evidenza le scelte sbagliate degli anni precedenti riguardo la sanità pubblica e anche le scelte nella previsione nel numero di specialisti come gli anestesisti rianimatori, che sono gli unici a poter gestire i delicati pazienti in rianimazione, a gestire le anestesie durante gli interventi chirurgici e altre attività mediche di cui hanno l’esclusiva.
Ebbene i numeri di accesso alla specialità per anni sono stati decisi in modo miope.
Fino ad arrivare alla pandemia, durante la quale l’Italia si accorge di non avere posti letto in terapia intensiva sufficienti, ma anche di non avere gli specialisti che devono farli funzionare.
Avere i posti letto senza gli anestesisti è inutile. E allora?
Usciti dalla prima ondata si garantisce che tutto verrà adeguato in tempi brevi.
Passano mesi relativamente tranquilli e poi scoppia la seconda ondata.
Il quadro è migliorato, ma non certo come promesso e il servizio sanitario torna a scricchiolare.
Le terapie intensive prima dell’emergenza sanitaria e durante la seconda ondata COVID-19
Prima dell’emergenza sanitaria l’Italia poteva contare su 5.179 posti in Rianimazione.
Essendosi verificata una saturazione degli ospedali nei mesi caldi dell’epidemia, le strutture si sono però attrezzate programmando un aumento di posti letto in terapia intensiva di 3.553 unità, portando così il totale di quelle disponibili a 8.732.
Secondo quanto fa sapere il Ministero della Salute quelle che sono state effettivamente attivate sono il 38% di quelle previste, vale a dire 1.350 (non vi è alcuna specifica per la suddivisione regionale).
In tutto le postazioni attualmente presenti sono quindi 6.529.
Regione per regione, le cifre delle terapie intensive durante la seconda ondata in Italia
Per quanto riguarda la ripartizione regione per regione, ecco il numero di posti presenti al 31 dicembre 2019 a cui si sommano quelli programmati (ma in molti casi rimasti sulla carta):
- Piemonte 327 + 299 = 626
- Valle d’Aosta 10 + 10 = 20
- Lombardia 861 + 585 = 1.446
- Provincia Autonoma di Bolzano 37 + 40 = 77
- Provincia Autonoma di Trento 32 + 46 = 78
- Veneto 494 + 211 = 705
- Friuli Venezia-Giulia 120 + 55 = 175
- Liguria 180 + 57 = 237
- Emilia-Romagna 449 + 197 = 646
- Toscana 374 + 193 = 567
- Umbria 70 + 58 = 128
- Marche 115 + 105 = 220
- Lazio 571 + 274 = 845
- Abruzzo 123 + 66 = 189
- Molise 30 + 14 = 44
- Campania 335 + 499 = 834
- Puglia 304 + 270 = 580
- Basilicata 49 + 32 = 81
- Calabria 146 + 134 = 280
- Sicilia 418 + 301 = 719
- Sardegna 134 + 101 = 235
Nel nostro Paese i posti letto in terapia intensiva per 100 mila abitanti sono, quindi, 10,6 (mentre il governo ha fissato la soglia di sicurezza a 14).
Analizzando i dati Agenas di ogni singola Regione, al momento soltanto Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta hanno raggiunto un rapporto di letti in terapia intensiva per abitante maggiore della soglia di sicurezza.
Poi c’è la carenza di medici specialisti in anestesia e rianimazione
I segnali di sofferenza si erano manifestati già prima della pandemia: sono loro che possono occuparsi dei pazienti in terapia intensiva e in rianimazione, sono loro che devo presenziare ad ogni intervento chirurgico, ordinario e straordinario, sono loro che devono valutare i pazienti pre e post chirurgia.
Eppure, già prima della pandemia, ad alcuni concorsi per la loro assunzione non si sono presentati candidati in numero sufficiente.
Peraltro, secondo i dati americani, gli anestesisti rianimatori sono i medici più esposti al burnout.
Non ci sono anestesisti sul mercato.
Da anni i sindacati denunciano una carenza cronica: ce ne vorrebbero altri 4mila a fronte dei 18mila attualmente operativi.
Una specializzazione delicata ma anche poco attrattiva, perché rispetto ad altre è meno legata alla libera professione.
E quindi si guadagna meno, a fronte di responsabilità altissime e turni sfiancanti per coprire le carenze strutturali.
A risolvere il problema non bastano certo i riconoscimenti come quelli di Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità e di Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità: “I colleghi delle terapie intensive hanno dato una prova formidabile e il Paese deve loro un ringraziamento unico, speciale e incommensurabile. Gli anestesisti e rianimatori italiani sono molto competenti anche a livello internazionale e sono dei pilastri della risposta al Covid”.
Meno di un mese fa, il 4 novembre 2020, Alessandro Vergallo, presidente dell’AAROI-EMAC, l’associazione che raggruppa gli anestesisti e rianimatori italiani, ha lanciato un chiaro allarme: “Non basta creare nuove postazioni e fornire la giusta strumentazione, servono anche medici preparati che si prendano cura dei pazienti, che altrimenti diventano ingestibili. Nell’inerzia dell’estate abbiamo sprecato anche questa occasione”.
E ha aggiunto: “Con i nostri organici non possiamo assicurare la gestione di più di 7mila posti letto di terapia intensiva.
Stiamo cercando di rimediare in tutti i modi con turni massacranti, niente riposi e blocco delle ferie.
Abbiamo fermato le attività chirurgiche e spostato colleghi dalle sale operatorie, abbiamo reclutato anche i colleghi specializzandi.
Ma in questa emergenza il cerino rischia di rimanere nelle nostre mani”.
Spiegando: “Siamo noi, insieme ai colleghi medici e operatori sanitari, gli specialisti in prima linea contro il Covid.
Quelli che intubano e intervengono per evitare il peggio.
Sosteniamo tutte le funzioni vitali del paziente.
Non solo il respiro, ma anche quella metabolica e renale.
Il nostro mestiere è mantenere in vita la persona a dispetto di tutto”.
Seconda ondata di coronavirus, nelle terapie intensive mancano gli anestesisti
L’ultimo paracadute del sistema sanitario, l’estrema risorsa per i malati più gravi. Da Nord a Sud, il ritornello è sempre lo stesso: mancano anestesisti.
La coperta è corta, anzi cortissima.
In più è mal pagata i nostri pochi specialisti se possono scelgono una vita migliore all’estero.
“Negli Stati Uniti l’anestesista è ai primissimi posti delle discipline mediche”, spiega Vergallo.
Ma basta rimanere in Europa per vedersi riconosciuta la professionalità.
In Paesi come Francia, Germania e Regno Unito i nostri anestesisti sono pagati il 30 per cento in più che in Italia.
Ironia del destino, in questo periodo la figura del rianimatore è tornata al centro della scena.
“Ma i colleghi sono provati dai ritmi di lavoro e arrabbiati per l’abbassamento della guardia nei mesi estivi”.
Tra la prima e la seconda ondata, nemmeno il tempo di prendere fiato.
In Campania servirebbero almeno 400 specialisti, in Sicilia 250.
L’Unità di crisi del Lazio sta reclutando i pensionati, mentre in Lombardia alcuni punti nascite vengono chiusi per dirottare gli anestesisti dove c’è bisogno.
E le Marche invocano l’invio di rianimatori militari.
La giornalista del Sole 24 Ore Cristina Da Rold racconta un dettaglio emblematico: “Ho parlato con un primario di un Covid hospital del centro-sud che, mentre lo intervisto, mi chiede se conosco anestesisti da mandargli perché è disperato e passa ore al telefono a cercare personale”.
Autori:
Dott. Fausto D’Agostino
Anestesia e Rianimazione, Policlinico “Campus Bio-Medico” di Roma
Ufficio IV Ministero della Salute – Sede Centrale
Direttore ITC AHA Centro Formazione Medica
Dott. Mario Pappagallo
Medico e Giornalista