Riportare la normalità dopo il terremoto. La ricostruzione della rete socio-assistenziale quando non c'è più nulla
Tutti siamo convinti che la fase di ricostruzione parta mesi e mesi dopo l’emergenza. Invece la fase di ricostruzione è già iniziata e sta riportando alla normalità diversi aspetti – davvero importanti – che tendiamo a dimenticare.
Cerchiamo di analizzare con il dottor Fabio Mora, Coordinatore della C.O. 118 Emilia Est, afferente al dipartimento di emergenza dell’AUSL di Modena, quali sono le cose materiali e immateriali che danno la speranza di una ricostruzione agli sfollati colpiti dal sisma.
Per la seconda volta nella sua vita il dottor Fabio Mora si è svegliato nel cuore della notte in un letto traballante. La prima volta era il 2012, nel cuore dell’Emilia dove abita. La seconda volta era il 25 agosto, in vacanza, a Roma. Una vacanza interrotta subito per tornare in servizio presso la Colonna Mobile della Regione Emilia Romagna. Lui, come tanti altri professionisti e volontari, è stato parte del meccanismo che sta rendendo già possibile la fase della ricostruzione. Non una ricostruzione materiale, fisica, edile. Ma una ricostruzione di attività, servizi e reti di supporto che fino a quando non crolla tutto, diamo per scontato. Una rete di supporto che non finisce mai in prima pagina, ma che riporta nelle terre polverose e pericolanti una cosa straordinaria: la dignità.
Stiamo parlando della maggior parte del lavoro svolto dai volontari in ambito sanitario e dai medici e infermieri del 118 che in meno di 72 ore hanno riportato a Montegallo una parvenza di normalità alle popolazioni terremotate. “Ho sostituito il mio collega il 27 agosto – spiega Mora dalla sede della Centrale Operativa di Bologna, dove è appena rientrato in servizio – il terremoto l’ho sentito bene e io, che sono di Carpi, ho vissuto le stesse brutte emozioni di allora. Con me sul posto c’erano quattro preziosi collaboratori: Erika Moretti, infermiera del 118 di Cento, Gabriele Marangono, infermiere 118 H delta, Giorgio Pasetto, medico di Mirandola e Claudio Micheletti, autista soccorritore del 118 di Bologna”.
Il contingente della missione dell’Emilia Romagna, dal punto di vista sanitario, era composto da 1 coordinatore sanitario, due infermieri (di Ferrara), un autista soccorritore e un medico. Mora è stato quindi responsabile di missione e ha coordinato le azioni dal campo base di Montegallo, in provincia di Ascoli Piceno. E’ il campo che ha avuto sotto responsabilità sanitaria l’area marchigiana del sisma.
“Di fatto questa non è stata una singola maxi-emergenza, ma sono state tante maxi-emergenze insieme a causa dell’orografia del territorio. Il nostro campo base era a 900 metri slm, i trasporti sono stati un vero problema”. I 12 chilometri che separavano il campo base si traducono in circa 20-30 minuti di viaggio e questo vale per ogni avamposto localizzato sulla zona del terremoto.
Qual’è stata la prima cosa che il vostro contingente ha fatto?
Il nostro obiettivo era quello di ristabilire la rete della gestione sanitaria dei quasi 300 abitanti stabili della zona che sono stati accolti nei campi. Il nostro campo regionale è stato diviso sul territorio in 3 parti. Una scelta dovuta alla difficoltà logistica del territorio. Abbiamo creato un campo base con logistica a Uscerno, un campo 1 con tende e popolazione di 70 persone e un campo 2 a Balzo, all’interno del camping Vettore, il monte che con il terremoto si è spostato di 10 centimetri.
Professionisti e volontari dell’emergenza per ricostruire un tessuto sanitario?
“Si, esattamente, e devo dire che con l’installazione dello shelter ambulatoriale, abbiamo ottenuto il risultato che ci eravamo prefissati: far ritornare i servizi socio-assistenziali e sanitari alla normalità, nonostante la situazione abitativa precaria”.
Le competenze del “centodiciottista” come sono state usate?
“Nella realtà dei fatti, come emergenza sanitaria, il nostro presidio è stato utile per i lavoratori che hanno allestito i campi. Il personale al lavoro era a rischio infortunio, qualcosa di non grave lo abbiamo risolto. Ma più che altro come centodiciottisti ci siamo trovati a gestire un’emergenza non di 118, ma umanitaria. Nella zona sismica dopo i crolli si rompono le reti di assistenza e mancano tutti i servizi socio sanitari di base. L’ho visto a L’Aquila, l’ho visto in Emilia e l’ho visto qui. Abbiamo ricostruito in 5 giorni tutta l’organizzazione della medicina di base distrettuale, abbiamo riallacciato i contatti con le persone che potevano mettere in rete le proprie strutture e fornire l’assistenza necessaria alla normale gestione sanitaria della popolazione, che va ricordato è principalmente formata da persone anziane”.
Qual’è stato il tuo ruolo?
“Come coordinatore sanitario ho lavorato alla riapertura dei canali e alla ricostruzione della rete, partendo dai medici di base. Abbiamo organizzato nel PMA l’assistenza medica e pediatrica. Abbiamo rimesso poi in piedi l’assistenza domiciliare in tenda, le giornate di prelievo, gli accessi alla psicologia d’emergenza, il CSM e altre piccole cose che però piccole non sono, in una zona terremotata: il servizio rifiuti, il servizio di gestione delle salme nel campo, i servizi veterinari…”
Insomma avete tirato fuori dall’emergenza la popolazione con… una rete di emergenza!
Abbiamo cercato di ricostruire una vita quotidiana normale dove non esiste più la normalità. Fortunatamente nel campo 2, presso il Camping, c’erano anche dei bungalow dove poter allestire azioni specifiche, per esempio con i bambini o i disabili, che hanno bisogno di servizi particolari. Pensate che solo su Montegallo avevamo 12 bambini, e altri 8 a Uscerno (bambini in età da scuola elementare). Loro si sono affezionati a noi, ci hanno fatto un sacco di disegni e li abbiamo coinvolti con azioni educative di prevenzione sanitaria. La collega infermiera Erika ha speso pomeriggi a fare queste attività con loro e credo sia stato molto utile”.
“In pratica non abbiamo fatto il 118 – continua Mora – ma abbiamo fatto molto di più. L’obiettivo era ricostruire i livelli assistenziali di base per garantire tutti i servizi standard, e impattare il meno possibile sugli ospedali della zona, che sono comunque a una discreta distanza dal luogo del terremoto. Abbiamo raccordato e riattivato le reti pre-esistenti e adesso queste potranno rapportarsi direttamente con il Comune, in maniera autonoma e indipendente dai soccorsi nella zona delle macerie.
Che esperienza è stata?
“Ho vissuto tre terremoti. L’Aquila, l’Emilia (dove ho vissuto anche la scossa, perché casa mia è a Carpi) e questi due minuti. E posso dire che in tutti e tre i casi, la situazione emergenziale è proprio questa: ricostruire la rete preesistente di servizi che da ai cittadini la sicurezza di soddisfare i propri bisogni di base”.
Perché allora serve proprio l’operatore di 118 per questa ricostruzione?
Perché il centodiciottista sa prendersi in carico il bisogno e la necessità. Non è solo il fatto di occuparsi dei traumatizzati. Nel centodiciottista, e in particolare nell’infermiere di 118, c’è un’abitudine a prendere in carico il bisogno. E’ qui che le figure sanitarie iniziano a fare la differenza: per evitare che si concretizzi l’emergenza cronica è fondamentale orientare e programmare l’azione di ricostruzione della rete assistenziale”.
Come reagisce la popolazione davanti al vostro lavoro?
Dopo il momento di spaesamento iniziale, le persone iniziano a capire che stanno tornando alla normalità quando capiscono cosa stai facendo. Quando capiscono che tu stai facendo questo lavoro per soddisfare i loro bisogni ti prendono come punto di riferimento e cambiano. Vedi persone che dallo smarrimento iniziale – senza casa, senza bagno, messi a dormire in tenda – iniziano a capire che c’è un disegno per ridar loro servizi, resilienza e dignità.
Quali sono i punti principali che vi hanno guidato negli anni?
Nel bene e nel male è l’esperienza sul campo che ci ha indicato la strada. La nostra Regione Emilia-Romagna ha operato nei terremoti d’Abruzzo e dell’emilia. Poi c’è l’ascolto fra le strutture, che porta a una forte sinergia. Abbiamo replicato in ogni campo di Colonna Mobile le funzioni svolte dal C.O.R (centro operativo regionale) dividendole quindi in funzioni tecniche, logistiche e sanitarie.
C’è una procedura operativa standard per riportare alla normalità un territorio devastato dal sisma?
“Prima di tutto c’è l’individuazione dei servizi più importanti per ridare dignità alle persone. A seguito i servizi di base vengono ristabiliti a seconda della complessità necessaria a ristrutturare i rapporti. Sanità alimentare, servizio rifiuti, gestione salme, prevenzione igiene e infezioni… sono tutti aspetti che vanno riattivati. Uno non ci pensa, ma c’è anche la medicina veterinaria. In tutto questo il 118 svolge il coordinamento principale rapportandosi al sistema sanitario regionale. Pensiamo al territorio del Centro Italia dove ci sono micro-comunità di allevatori con pochissime persone in luoghi isolati e capi di bestiame da gestire. Non puoi lasciare indietro la gestione sanitaria zootecnica. Abbiamo gestito anche comunità di 15 persone per permettere loro di restare vicino ai loro animali, unica fonte di reddito che avevano.
Come vi siete organizzati sul territorio?
Ci siamo organizzati sul territorio con una ambulanza, 1 pullmino e un PMA che ha fatto da alloggio e da ambulatorio. Inoltre avevamo a disposizione 3 persone di Anpas Emilia-Romagna per il trasporto disabili, il trasferimento farmaci o altre esigenze. Sul campo base avevamo in più un’altra ambulanza BLS-D di Anpas. Io mi occupavo dei raccordi operativi e dei contatti, l’ambulatorio al PMA vedeva al lavoro un medico e un infermiere, mentre l’altro infermiere era una MSA avanzata al campo base, con l’ambulanza Anpas di supporto.
Cosa impara un centodiciottista da questa esperienza?
Prima di tutto vedi i risultati del tuo lavoro in breve tempo e non è poco, perché siamo abituati a non vedere sempre in breve tempo i risultati di ciò che facciamo quotidianamente. Poi il centodiciottista può trarre da questa esperienza l’importanza del sistema di cui fa parte. Un sistema organizzato può essere catapultato in un’area sconosciuta, ad operare con persone sconosciute, ma trovando sempre una sintonia completa con le esigenze organizzative e operative, senza problemi di raccordo. Questa esperienza serve da rinforzo per il nostro sistema di attività quotidiane. Emotivamente, è ovvio, questa esperienza ti lascia cose indimenticabili. C’è un forte e reciproco scambio fra tutti di cose importanti, non solo professionali.
Manca forse però un aspetto, quello dello stress emotivo e professionale. Si è parlato di PTSD in zona sismica?
“Si, certo. E sicuramente si stanno organizzando per tutti azioni di analisi e di de-briefing. Già sul posto, tutte le sere, abbiamo fatto riunioni di raccordo in cui ci siamo detti cosa avevamo fatto, quali erano stati i problemi e quali erano i programmi del giorno successivo. Devo dire veramente che questa attività impostata in questo modo ha pagato tantissimo nel permetterci di raggiungere gli obiettivi prefissati. Grazie ai funzionari regionali siamo riusciti a condurre un’attività sinergica, e questo fa la differenza anche su questi aspetti. Sapere bene cosa hai fatto, per quante persone, e quali sono le cose che farai domani, è un grande – seppur semplice – aiuto per l’operatore sanitario”.