Emergenze, stress e PTSD: imparare a gestire se stessi (PARTE 1)
Emergenze, stress e PTSD: imparare a gestire se stessi.
di Luca Tomaiuolo, Blogging the Security
Immaginate che la vostra mente sia un foglio bianco e che al suo interno si crei, punto dopo punto, una linea. Netta, definita. Ora immaginate che quella riga, a forza di percorrerla giornalmente diventi un tratto marcato e ben visibile. Provate ora a pensare che quella linea iniziale sia il vostro addestramento e che il continuo ripercorrerla sia il vostro allenamento. Immaginate ora una nuova linea, combaciante in alcuni tratti e divergente in altri. Questo è il tratto disegnato dalla vostra esperienza: più il singolo fatto esperienziale sarà concettualmente lontano dagli scenari addestrativi tipici, più il tratto divergerà dal primo solco. Maggiore sarà il numero di esperienze e maggiore diventerà il solco risultante, simbolo della competenza personale acquisita.
L’esperienza, si sa, è la migliore formatrice che ci possa essere. Soprattutto quando appoggiata dalla Legge di Murphy. Ma provate ad immaginare, come ultimo passo, che un bicchiere d’acqua venga rovesciato sul vostro foglio. Il risultato sarà un tracciato meno netto, meno visibile e molto più confuso.
In termini pratici/operativi, quella secchiata d’acqua è l’evento che ha saputo (apparentemente) trasformare tutto il vostro bagaglio formativo ed esperienziale in un ostacolo da superare. Da lì in poi, starà a voi ricostruire il tracciato, la nitidezza e il contrasto.
PTSD è l’acronimo di Post-Traumatic Stress Desorder ovvero, secondo il National Center dell’US Veterans Affairs, “a mental health problem that can occur after someone goes through a traumatic event like war, assault, an accident or disaster.” Argomento particolarmente avvertito in America, per via dei teatri operativi in cui sono stati impiegati i militari statunitensi dagli anni ‘50, non è poi così lontano dalla vita di tutti i giorni di chi, per lavoro, per scelta o per necessità, si trova a dover affrontare situazioni particolarmente stressanti.
A maggior ragione, chi si occupa di soccorso ed emergenza, non è immune allo stress e ai suoi derivati.
Il DSM-IV (Manuale diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, ed. italiana a cura di Masson) ha ben definito i criteri per diagnosticare il PTSD. Semplificando, in termini pratici, per poter confermare che soffre di PTSD, il soggetto deve provare paura, orrore e impotenza nella situazione specifica; riviverla in modo persistente, arrivando fino ad evitare situazioni ricche di stimoli associati che farebbero riaffiorare il trauma; provare un’inadeguatezza sociale/lavorativa derivante per almeno un mese. Dunque qualcosa di ben più strutturato e durevole di un semplice spavento.
Bensì un vero e proprio secchio d’acqua psicologico che ha la capacità di mettere in difficoltà il riaffiorare del tracciato della competenza professionale e personale.
In psicologia e psicanalisi per trauma si intende “un turbamento dello stato psichico prodotto da un avvenimento dotato di notevole carica emotiva. – Estens. e fig. Grave alterazione del normale stato psichico di un individuo, conseguente a esperienze e fatti tristi, dolorosi, negativi, che turbano e disorientano” e può dunque riferirsi ad eventi ben diversi. Può essere legato ad avvenimenti vissuti in guerra: secondo un’interessante ricerca del Lancet condotta su circa 14 mila soldati inglesi, sono cresciuti gli atti di violenza tra i militari dopo le missioni all’estero, specie se con meno di 30 anni, con ruoli di combattimento e/o esperienze traumatiche. Oltre il 20% dei 2.728 giovani militari seguiti ha commesso infatti un atto violento (principalmente aggressioni) rispetto al 6,7% dei loro coetanei non militari. Negli USA i dati sono ancora più importanti: ben il 15% dei soldati reduci da missioni all’estero riporta sintomi da PTSD e, dato del 2012, si conta un suicidio al giorno.
Oppure può essere dovuto ad eventi legati ad atti di terrorismo, disastri o violenze personali (in primis abusi sessuali, soprattutto se infantili). Un interessante esempio ci arriva dall’attentato terroristico del 11 settembre a New York. Secondo uno studio fatto nella Grande Mela, la percentuale di soggetti con sintomi riconducibili al PTSD è cresciuta, come mostra la figura 1. Altra statistica assolutamente interessante, legata sempre al nine-eleven è quella ritratta dalla figura 2. In questo caso quello che emerge a colpo d’occhio sono le percentuali in riferimento alla tipologia di professionalità intervenuta: un disturbo del genere può colpire un po’ tutte le categorie professionali impegnate nella gestione delle urgenze ed emergenze.
Senza addentrarci in noiose statistiche e tecnicismi vari, l’esempio sopra è fondamentale per arrivare al punto centrale di questo scritto: nessuno può essere ritenuto immune allo stress, laddove si intenda con questo termine l’azione generica che l’organismo ha in risposta ad una situazione o uno stimolo generico con cui il soggetto si trova a dover interagire (in termini tecnici stressor).
Perché, benché questi due termini vengano spesso usati come sinonimi o addirittura li si tenda a confondere, la loro differenza è sostanziale. Uno identifica una situazione, l’altro in che modo quella specifica esperienza viene gestita dal nostro corpo.
Corpo e mente che, se efficacemente preparati con un allenamento ed una formazione oggettivamente validi, sono le armi giuste per gestire gli eventi stressanti con cui un soccorritore è costantemente a contatto. Questi due punti uniti all’assimilazione propositiva dell’esperienza rappresentano sicuramente un bagaglio di miglioramento personale e settoriale su cui far leva.
Quindi una formazione propedeutica per mezzo di protocolli formativi validi non solo nei contenuti ma anche nella metodologia di trasmissione degli stessi; un allenamento costante e poli-strutturato, con una costante presenza di inoculazione allo stress, di fattori per l’incremento della soglia di attenzione, del miglioramento e mantenimento di una memoria muscolare valida, della verifica degli steps operativi raggiunti con un costante aumento della difficoltà (singola e di gruppo) su scenari addestrativi realistici per un ideologico allargamento del tracciato scolpito in fase formativa; in un’ultima battuta un’esperienza ben strutturata.
Mi si obietterà che quest’ultima è quella che è, quella che arriva: non può essere certo definita in precedenza. Ma è altresì vero che può essere sicuramente scelto come strutturare il post facto. L’importanza, personale e collettiva, del debriefing diventa un mezzo utile per il mantenimento del livello raggiunto e la gestione del lato esperienziale che, come detto, non può essere scelto ma che può essere intelligentemente scolpito una volta concluso. E’ così possibile “costruire” su quelle che sono state le scelte fatte, gli errori commessi e, soprattutto, sui lati positivi emersi. Perché solo valorizzando quanto è stato fatto correttamente è possibile dare maggiore nitidezza al tracciato, per poi rivedere gli sbagli. Cercando di comprendere, laddove possibile, il punto di partenza dell’errore: se da una mancanza formativa, di allenamento o di esperienza oggettiva. La differenza è sostanziale e può permettere all’operatore, così come al team tutto, di migliorare.
Il ridicolizzare l’errore, mettendo in dubbio le competenze e responsabilizzando un singolo soggetto, è quanto di più pericoloso e deleterio si possa fare: si rischia di incrinare tutto il lavoro fatto fino a quel momento. Soprattutto di gruppo.
Perché in un’ottica il miglioramento collettivo può essere idealmente rappresentato come il traslare i vari tracciati in un foglio allargato, in cui è proprio la sommatoria delle linee a creare il solco di competenza utile ad intervenire in maniera efficace, professionale e collettiva.
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