La terapia dell'ipertensione arteriosa
Nella lotta alle malattie cardiovascolari il controllo dell’ipertensione arteriosa è quello che sta dando i migliori risultati in termini di rapporto tra costo ed efficacia
I grandi studi di intervento farmacologico hanno dimostrato infatti che la riduzione di appena il 10% dei valori tensivi ha determinato una riduzione del 40% della mortalità da accidenti cerebrovascolari e del 16-20% della mortalità da accidenti coronarici .
Tale risultato, da molti ritenuto modesto, è invece buono se confrontato con la riduzione del 40% della mortalità coronarica che si ottiene con le statine con una riduzione però più che doppia della colesterolemia.
La ricerca farmacologica ha messo a disposizione del medico un gran numero di farmaci dotati dei requisiti fondamentali per un soddisfacente impiego nella terapia dell’ipertensione arteriosa .
Essi si caratterizzano per varie proprietà: meccanismo d’azione, effetti collaterali, proprietà ancillari….
Queste ultime, in particolare, sono quelle caratteristiche farmacodinamiche proprie di alcune categorie di farmaci antiipertensivi e non di altre che, disgiunte dalla loro azione sulla pressione arteriosa, li rendono particolarmente utili nella terapia dell’ipertensione associata ad altre malattie o a danno d’organo secondario all’ipertensione.
- attività antiaritmica
- attività antianginosa
- regressione ipertrofia ventricolare sinistra
- regressione o rallentamento della storia naturale dell’aterosclerosi
- attività ipolipemizzante
- attività antiemicranica
- prevenzione nefropatia
- efficacia nel prostatismo
I compiti principali del medico nei confronti del paziente iperteso sono la documentazione dell’esistenza dell’ipertensione arteriosa e la definizione della sua gravità, la ricerca di danno d’organo ad essa correlato, nonchè l’identificazione di patologie associate che richiedano provvedimenti terapeutici che possano interferire con i farmaci antiipertensivi o che condizionino la scelta dell’antiipertensivo.
Con l’eccezione dei chemioterapici, gli antiipertensivi costituiscono oggigiorno la categoria di farmaci forse più ricca a disposizione del medico
Ciò rappresenta un indubbio vantaggio rispetto alla scarsa disponibilità del passato anche recente, ma può comportare il rischio di un totale disorientamento al momento di operare una scelta.
Per questo è opportuno aggiungere alcuni suggerimenti circa i criteri da seguire per impostare un trattamento razionale e adeguato a riportare alla norma o il più vicino possibile alla norma i valori della pressione arteriosa.
Il primo criterio deve basarsi sul grado della ipertensione, lieve, moderato o grave che, anche se ha un valore puramente indicativo, appare quanto mai utile sul piano clinico-terapeutico.
Nel paziente con ipertensione lieve è infatti opportuno un periodo di osservazione clinica controllata sufficientemente protratta, fino a 4-5 mesi, prima di instaurare una terapia, dato che la pressione potrebbe rientrare nei valori normali spontaneamente o con semplici misure igienico-dietetiche.
Inoltre nell’ipertensione lieve è consigliabile iniziare con una terapia farmacologica “leggera”, in monoterapia, visto che il controllo pressorio è spesso facile e il rischio di complicanze è proiettato lontano nel tempo ed è comunque basso.
Nel caso dell’ipertensione moderata o grave invece non ci sono più dubbi sull’opportunità di un trattamento farmacologico immediato.
In questo caso il paziente sarà avviato alla terapia che dovrà essere intrapresa con gradualità e continuità.
Questa viene condotta il più spesso a gradini (“step up”): si inizia con un farmaco, per associare, in caso di insoddisfacente risposta terapeutica, un secondo farmaco e poi un terzo e così via fino al controllo dell’ipertensione.
Talora non potendo prevedere il farmaco più efficace e meglio tollerato, si può iniziare già con un associazione di due antiipertensivi, per provare a sospenderne uno dopo avere ottenuto la normalizzazione dei valori tensivi, per identificare quello responsabile della buona risposta (“step down”). Infine si può provare con un tipo di antiipertensivo, da modificare, in caso di insoddisfacente risposta, con un altro con diverse caratteristiche farmacodinamiche (“side stepping”).
La prima modalità di conduzione della terapia (“step up”) è quella raccomandata molti anni fa dal Joint National Committee americano ed è ancora molto seguita.
La seconda (“step down”) va impiegata quando sia necessario ottenere rapidamente un buon controllo pressorio, ma si voglia successivamente alleggerire lo schema terapeutico.
La terza (“side stepping”) richiede un lungo periodo di osservazione e andrebbe seguita solo quando non ci sia fretta di normalizzare i valori tensivi, visto che per molti antiipertensivi la risposta terapeutica massima non compare prima di qualche settimana.
Un altro criterio utile ai fini dell’impostazione terapeutica è quello che si basa sulla presenza o meno di un danno d’organo e cioè sulle conseguenze dell’ipertensione
È evidente che il trattamento di una ipertensione che abbia già determinato insufficienza cardiaca, accidenti cerebrovascolari o insufficienza renale pone problemi ben più difficili che non un’ipertensione senza evidenti complicanze e richiede un notevole impegno da parte del medico.
Un terzo criterio è quello della eventuale presenza di patologie concomitanti sulle quali alcuni farmaci antiipertensivi possono interferire negativamente o il cui trattamento può interagire negativamente con quello della ipertensione.
È questo il caso dell’iperteso emicranico nel quale l’impiego di betabloccanti non cardioselettivi può controllare ipertensione e cefalea, dell’iperteso con ipertrofia prostatica, nel quale è raccomandabile l’impiego di un a1-bloccante, per controllare pressione e pollachiuria.
Fortunatamente la stragrande maggioranza dei casi di ipertensione è rappresentata come si è già detto dalla forma lieve e non complicata per cui il problema di come impostare la terapia non è così cruciale e in fondo si identifica con il problema della scelta del farmaco o dei farmaci più adatti.
La scelta del farmaco antiipertensivo è, infatti, ancor oggi sostanzialmente empirica.
Non disponiamo infatti di criteri che ci consentano di operare scelte terapeutiche razionali, vale a dire basate sulle caratteristiche fisiopatologiche dello stato ipertensivo.
Tutt’al più ci si può affidare ad alcuni dati clinici, che hanno qualche attinenza con la fisiopatologia, ma che non sono strettamente fisiopatologici.
Scelta iniziale della terapia antipertensiva in funzione delle complicanze dell’ipertensione
- Ipertrofia Ventricolare Sinistra: ACE Inibitori, bloccanti Recettore AT1 dell’Ang II, calcioantagonisti, antiadrenergici centrali
- Infarto Miocardico Acuto: betabloccanti, ACE Inibitori
- Angina pectoris: betabloccanti, calcioantagonisti
- Nefropatia ipertensiva e insufficienza renale lieve: ACE Inibitori, calcioantagonisti, antiadrenergici centrali, alfa1bloccanti, Diuretici ansa
- Insufficienza renale avanzata: calcioantagonisti, antiadrenergici centrali, alfa1bloccanti, diuretici ansa
- Scompenso cardiaco: ACE Inibitori, bloccanti recettore AT1 dell’Ang II, diuretici
- Claudicatio: calcioantagonisti, alfa1bloccanti, ACE Inibitori, bloccanti recettore AT1 dell’Ang II
Il primo dei criteri che dovrebbero guidare il medico nella scelta dei farmaci da usare è rappresentato dalla buona tollerabilità.
Quest’ultima è buona pur con le eccezioni degli effetti collaterali sopra indicati per le singole categorie.
È comunque frequente che all’inizio del trattamento il paziente avverta quel lieve senso di astenia, fisica, psichica e sessuale, che così spesso accompagna il calo stesso della pressione arteriosa in pazienti abituati a regimi tensivi elevati: si tratta infatti di un fenomeno transitorio, che non può esimere il medico dal perseguire il suo obiettivo primario che è quello di ricondurre la pressione arteriosa ai valori normali o più vicini possibile alla norma.
Nella scelta del farmaco antiipertensivo un altro criterio è quello fisiopatologico-clinico:
- Scelta iniziale della terapia antipertensiva in funzione delle caratteristiche clinico-demografiche del paziente
- Dislipidemia, sindrome plurimetabolica: alfa1bloccanti, ACE Inibitori
- Iperuricemia: losartan
- Sindrome ipercinetica: betabloccanti
- Gravidanza: alfametildopa, atenololo
- Diabetici: ACE Inibitori, calcioantagonisti
- Razza nera: diuretici, calcioantagonisti
La scelta viene condotta sulla base di alcune caratteristiche cliniche del paziente in esame, caratteristiche che sono un riflesso della sua condizione fisiopatologica.
Di fronte ad un iperteso giovane e tachicardico, che ha quindi sicuramente una circolazione ipercinetica e probabilmente un’alta portata cardiaca, la scelta si orienta facilmente verso l’impiego di un betabloccante.
Di fronte invece ad un paziente bradicardico e nel quale si riscontri un aumento prevalente della pressione diastolica, il medico è autorizzato ad ipotizzare che la portata cardiaca sia normale e le resistenze periferiche aumentate, per cui orienterà la propria scelta verso un farmaco dotato di attività vasodilatante.
Infine, se prevale l’aumento della pressione sistolica e la pressione differenziale è elevata, è molto probabile che, oltre all’aumento delle resistenze arteriolari, si abbia anche una minor compliance dei grossi vasi elastici per cui si potranno impiegare farmaci attivi sia sui piccoli vasi arteriosi che sui grossi vasi elastici e cioè calcioantagonisti o ACE inibitori.
Altri criteri di orientamento nella scelta dei farmaci antiipertensivi potrebero venire dagli esami di laboratorio.
Il riscontro di una ipokaliemia al di fuori di ogni precedente trattamento diuretico indurrà a controllare l’attività reninica plasmatica.
Se questa è alta (dopo aver escluso un’ipertensione secondaria nefrovascolare correggibile), sarà logico orientare la propria preferenza iniziale verso gli inibitori dell’enzima di conversione ed i bloccanti del recettore AT1 dell’ANG II; se è bassa, sarà più logico pensare ad una ipertensione ipervolemica e orientarsi verso i diuretici, naturalmente associando gli spironolattoni ai tiazidici, in ragione dell’ipokaliemia e di un possibile iperaldosteronismo, sia pure latente.
Renderà cauti sull’uso dei diuretici anche il riscontro di un’iperuricemia o di una iperglicemia, tenuto conto degli effetti collaterali biochimici di questo gruppo di farmaci.
Altri elementi di cui bisogna tener conto sono quelli derivanti da una valutazione clinica complessiva del paziente, con particolare riguardo alla presenza di eventuali patologie associate e, nel caso d’ipertensione di grado severo, di complicanze dell’ipertensione stessa.
È solo il caso di ricordare la cautela con cui devono essere usati i betabloccanti nei pazienti diabetici, e le controindicazioni costituite dalla presenza di broncopneumopatie croniche ostruttive o di asma, di un blocco a.v., di uno scompenso ventricolare sinistro.
I betabloccanti sono anche controindicati in quegli ipertesi i quali abbiano una claudicatio intermittens da aterosclerosi delle arterie degli arti: in casi del genere i farmaci dotati di azione vasodilatatrice (ACE inibitori, calcioantagonisti, a1-bloccanti) diventeranno ovviamente i farmaci di prima scelta.
Nei pazienti ipertesi con coronaropatia di tipo anginoso, betabloccanti e calcioantagonisti saranno i farmaci prescelti, almeno in prima istanza. In caso di pregresso infarto, l’uso dei betabloccanti e degli ACE inibitori è imperativo, a meno che non esistano altre controindicazioni, dato che vari studi hanno dimostrato la loro efficacia nella prevenzione del reinfarto e della morte improvvisa.
Negli ipertesi con insufficienza renale conclamata è razionale l’uso dei diuretici, trattandosi per lo più di pazienti ipervolemici; tuttavia la scelta del diuretico dovrà essere oculata, dato che nei pazienti con clearance della creatinina particolarmente bassa i soli diuretici efficaci e ben tollerati sono i diuretici dell’ansa, usati a dosi più elevate che di norma.
La casistica potrebbe allungarsi, ma basti qui avere citato alcuni esempi per ricordare che in ogni iperteso la valutazione clinica deve essere approfondita e completa se si vuole che l’approccio terapeutico abbia una qualche razionalità o addirittura non risulti nocivo.
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