Morbo di Parkinson: sintomi, cause e diagnosi
Nel 1817 James Parkinson pubblicò una monografia dal titolo “Essay on the shaking palsy”, ovvero “scritto a proposito della paralisi agitante”
Si trattò della prima descrizione scientifica di una condizione morbosa in cui veniva enfatizzata la combinazione di due fenomeni contraddittori, la paralisi muscolare ed il tremore.
Da allora gli studi su questa malattia si sono moltiplicati fino a delineare una delle malattie neurologiche più note e approfondite della medicina moderna, anche se tuttora rimangono aspetti, soprattutto quelli concernenti le sue cause, tutt’altro che chiariti.
Che cos’è il Morbo di Parkinson
Secondo le attuali conoscenze il Morbo di Parkinson è una Patologia nervosa degenerativa primaria, ovvero un processo di morte cellulare programmata (apoptosi) che colpisce un particolare tipo di Cellula nervosa durante la vita dell’individuo.
Le cellule nervose, come molti sanno, sono elementi la cui capacità riproduttiva si blocca alla fine dello sviluppo intrauterino e che rimangono potenzialmente vitali fino alla morte naturale dell’uomo. In realtà, durante la vita di un soggetto un grandissimo numero di cellule nervose va incontro a degenerazione, per cui il naturale decorso del processo di invecchiamento consiste nella perdita di estese popolazioni di neuroni, a cui fa riscontro il consolidamento dei circuiti sinaptici (cioè delle connessioni tra cellule nervose) delle cellule superstiti.
Questa doppia tendenza, morte cellulare e consolidamento sinaptico è oggi considerata la base strutturale dei processi di apprendimento del cervello durante la vita di relazione, per cui le malattie degenerative primarie, come il Morbo di Parkinson, il Morbo di Alzheimer o l’Atrofia Multisitemica sono considerate come effetto di uno squilibrio per cui il ritmo di morte cellulare programmata sopravanza l’armonia del normale processo di invecchiamento globale del nevrasse.
La cellula nervosa maggiormente coinvolta nella degenerazione precoce in corso di Morbo di Parkinson è la cellula dopaminergica, ovvero secernente un neurotrasmettitore chiamato dopamina caratterizzato da un particolare pigmento nerastro.
La maggiore concentrazione di cellule dopaminergiche si trova in un’area della zona basale inferiore del cervello (mesencefalo, in una struttura laminare chiamata sostanza nera) e i cui prolungamenti formano un circuito con un’altra zona cerebrale più alta, detta nucleo striato.
Questo circuito (nigro-striatale) è parte di una più estesa connessione tra strutture cerebrali, complessivamente note come “nuclei della base”, che con complesse modalità governano globalmente i movimenti dei muscoli striati, cioè “volontari”.
In realtà esistono diverse varianti di malattie degenerative primarie che colpiscono le cellule dopaminergiche, con meccanismi assai diversi e con diverse localizzazioni di perdita di neuroni.
Il motivo per cui il Morbo di Parkinson è così “famoso” deriva dal fatto che le sue manifestazioni sono comuni a diverse condizioni patologiche, per cui spesso si definiscono “Parkinson” anche altre malattie neurologiche degenerative che non corrispondono esattamente alla malattia classicamente descritta; in secondo luogo tutti gli insulti di diversa natura, come le infiammazioni, i traumi, le intossicazioni, le carenze nutrizionali e, soprattutto, i danni ischemici legati al deterioramento dell’albero vascolare del cervello sono potenzialmente in grado di simulare i segni ed i sintomi del Morbo di Parkinson, semplicemente perché possono coinvolgere le stesse aree cerebrali. In questo caso si parla di parkinsonismo, ovvero di sindromi sovrapponibili in parte a quelli della malattia degenerativa, che in questi casi si definisce però “secondaria”.
Quali sono i sintomi del Morbo di Parkinson
Il Morbo di Parkinson è prevalentemente un disordine del movimento umano. La malattia raramente compare prima del trentesimo anno d’età.
La descrizione originale di James Parkinson comprende tre caratteristiche fondamentali, che compongono la “triade classica”:
- tremore a riposo delle estremità (tipicamente delle mani, con un movimento involontario che ricorda il gesto di “contare le monete”) avente un ritmo regolare (abbastanza precisamente a 3 Hz) e quasi sempre prevalente su uno dei due lati;
- rigidità dei segmenti muscolari, sia quelli degli arti che quelli del tronco; la rigidità viene avvertita dal paziente come “impaccio” nei movimenti, ma più spesso viene riscontrata obiettivamente dal medico, che valuta il tono muscolare a riposo durante la mobilizzazione passiva delle articolazioni, oltre a notare il tipico atteggiamento della schiena in iperflessione (“postura camtocormica”);
- ipo-acinesia, ovvero la globale riduzione o perdita della motilità spontanea del soggetto, che mostra una generalizzata riduzione dei movimenti accessori (ad esempio i movimenti pendolari degli arti superiori durante la marcia) ma soprattutto una chiara difficoltà nel dare inizio alle sequenze motorie finalizzate ad un programma esecutivo, dal semplice passaggio alla stazione eretta da seduto alla produzione di gesti di significato comunicativo. L’ipocinesia viene avvertita dall’osservatore come lentezza dei movimenti (“bradicinesia”) e come scarsa attitudine alla gestualità di relazione.
Tipicamente, il soggetto appare restìo anche all’espressione mimica spontanea del volto, a meno che non venga espressamente invitato ad assumere particolari espressioni.
La tipica ipomimia con dissociazione automatico-intenzionale si esplicita nella condizione in cui il paziente non sorride provocato da un motto di spirito ma è in grado di produrre a comando un “sorriso di cortesia”.
Il malato è consapevole della propria difficoltà al movimento, ne soffre le conseguenze sia sul piano della perdita dell’autonomia motoria che sul piano della povertà espressiva e, nei casi più avanzati, avverte la sensazione di essere bloccato da una forza irresistibile, specialmente durante il riposo a letto.
Oggettivamente il paziente affetto da Morbo di Parkinson non trattato, o nelle fasi di malattia in cui il trattamento perde in tutto od in parte l’efficacia terapeutica, è un invalido grave.
Oltre al disordine del movimento il Morbo di Parkinson porta con sé, in misura variabile, altre due condizioni patologiche:
- disautonomia, ovvero la compromissione dell’attività nervosa preposta al controllo delle funzioni vegetative (primariamente la termoregolazione, l’attività gastrointestinale ed il controllo dei parametri cardiocircolatori);
- alterazione del tono dell’umore somigliante, anche se non coincidente, ad un disturbo depressivo maggiore. In casi particolarmente avanzati la patologia può giungere a coinvolgere le aree corticali del cervello, inducendo stati di deterioramento cognitivo.
Per questo motivo diversi Autori parlano di “Parkinson-Demenza” come variante nosologica distinta. Poichè tuttavia esistono altre malattie neurodegenerative in qualche misura “imparentate” al Morbo di Parkinson in cui l’emergenza della demenza è molto più precoce e spiccata (Demenza a Corpi di Lewy, Paralisi Sovranucleare Progressiva, Degenerazione Cortico-Basale, ecc.), queste distinzioni tendono ad apparire fragili.
Trattandosi di una malattia cronica il cui grado di degenerazione incrementa nell’arco di diversi anni (decenni), i segni ed i sintomi summenzionati sono suscettibili di ampie variazioni nel tempo, in parte perché attualmente l’inferenza delle terapie farmacologiche è in grado di alterare sensibilmente (nel bene e nel male) il decorso delle manifestazioni patologiche, in parte perchè ogni soggetto tende a manifestare in misura diversa i tre segni della triade classica.
Ci sono malati che non sviluppano affatto (o sviluppano solo tardivamente) il tremore così come altri manifestano il tremore come segno pressochè unico della malattia (“variante tremorigena”).
La rigidità muscolare (definita “plastica” dai clinici) e soprattutto l’ipocinesia sono caratteristiche più costanti, per quanto anch’esse estremamente variabili tra i soggetti affetti.
Le cause del Morbo di Parkinson
Quanto esposto precedentemente sulla definizione del Morbo di Parkinson suggerisce immediatamente il fatto che le cause della malattia propriamente detta vadano ricercate nei processi biomolecolari intrinseci nelle cellule coinvolte.
Nel corso dei decenni sono state invocate numerose possibili condizioni di innesco della degenerazione cellulare selettiva a carico dei neuroni della sostanza nigra.
Tra queste spiccano alcune varianti di Morbo di Parkinson familiare, annoverabili tra le malattie geneticamente determinate ad insorgenza tardiva, di cui sono stati riscontrati rari ma sicuri esempi in diverse popolazioni.
Vista la loro rarità tuttavia queste descrizioni sono state utili più alla ricerca di particolari mutazioni dei geni implicati nei meccanismi molecolari di degenerazione del neurone dopaminergico che alla spiegazione dei fenomeni realmente operanti nella maggioranza dei casi di Morbo di Parkinson, essendo quest’ultimo privo di qualsivoglia trasmissione ereditaria riconoscibile. In altri termini, la malattia comune nell’uomo è fino a prova contraria sporadica, ovvero priva di ereditarietà dimostrabile geneticamente.
Discorso analogo va fatto a proposito di diverse altre ipotesi patogenetiche, da quelle basate su possibili tossicità specifiche autoindotte dagli stessi neuroni (eccitotossicità) a quelle che vedono in causa sostanze ambientali in grado di accelerare selettivamente fenomeni ossidoriduttivi sulla membrana dei neuroni (stress ossidativo), fino a quelle che ipotizzano reazioni infiammatorie dirette contro le cellule dopaminergiche, reazioni forse suscitate da anomale interazioni con l’ambiente esterno.
Sicuramente oggi disponiamo di un cospicuo corredo di informazioni riguardanti anomalie caratteristiche riscontrabili nelle cellule colpite dal Morbo: alcuni processi di degenerazione cellulare sono tipici, seppur non esclusivi, della malattia (soprattutto i corpi di Lewy, particolari inclusioni intracitoplasmatiche); inoltre le mutazioni dinamiche legate al disordine specifico della neurotrasmissione dopaminergica sono alla base di fenomeni involutivi anche a carico della altre popolazioni neuronali implicate nella circuiteria del sistema, fino a determinare alterazioni strutturali dei sistemi cerebrali connessi (nucleo caudato, globus pallido, talamo, corteccia motoria e corteccia associativa).
Le osservazioni ottenute dai rari casi di malattia a trasmissione genetica, unite ai rilievi ottenuti su vertebrati inferiori, hanno contribuito certamente a delineare dei modelli verosimili di produzione della malattia “nativa”, giungendo ad identificare molecole proteiche specificamente implicate nella produzione del danno neuronale (ad esempio, le alfa-synucleine entro i corpi di Lewy).
Ciò purtroppo, allo stato attuale, non consente ancora di delineare un percorso causale chiaro ed incontrovertibile che spieghi nel singolo paziente le cause di induzione del Morbo di Parkinson, almeno non nei termini che ad esempio usiamo per esporre la relazione tra infezione da Treponema Pallidum e sviluppo della sifilide.
Nel mondo il Morbo è la più frequente malattia neurodegenerativa primaria dopo il Morbo di Alzheimer
Le persone affette da Parkinson in Italia sono attualmente circa 230.000; la prevalenza (numero di persone affette rispetto al resto della popolazione nell’anno attuale) della malattia è pari all’1-2% della popolazione sopra i 60 anni e al 3-5% della popolazione sopra gli 85 anni.
Su 100.000 persone nel mondo ogni anno 20 individui si ammalano di Morbo di Parkinson.
L’età media di comparsa dei sintomi è intorno ai 60 anni, ma il 5% dei pazienti può presentare una forma ad esordio precoce, con esordio prima dei 50 anni.
Secondo studi epidemiologici condotti in Europa e negli Usa, la malattia colpisce le persone di sesso maschile con una frequenza superiore di 1,5-2 volte rispetto alle donne.
La durata di malattia, sostanzialmente coincidente con l’aspettativa di vita (sopravvivenza), ha subìto un drastico miglioramento in coincidenza dell’uso dei farmaci a base di L-dopa (il precursore della sintesi di dopamina, carente nel cervello del malato).
Infatti, in era pre L-dopa alcuni studi clinici (1967) riportavano una ridotta sopravvivenza nei soggetti affetti da Morbo di Parkinson rispetto alla popolazione generale, fino ad un rischio relativo di morte 3 volte superiore.
Dopo l’introduzione della L-dopa e fino alla metà degli anni ’80, invece, si è assistito ad una inversione di tendenza con numerosi studi clinici che riportavano una sopravvivenza addirittura sovrapponibile alla popolazione generale.
La Diagnosi
Il “combinato disposto” di un’età di esordio media intorno ai 60 anni, in cui un individuo risulta spesso già portatore di un cumulo variabile di condizioni patologiche tendenzialmente lesive del sistema nervoso centrale (comorbilità), associato alla dimensione microscopica (invisibile anche agli esami neuroradiologici) del danno neurodegenerativo primario fanno sì che la diagnosi di Morbo di Parkinson rimanga uno dei più difficili banchi di prova per il medico.
I medici addestrati al riconoscimento dei disordini del sistema nervoso, ossia i neurologi, devono tener presente che a loro spetta la responsabilità di riconoscere quegli aspetti clinici (in primis la summenzionata classica triade parkinsoniana, talora incostante, talora offuscata da altri disordini del movimento) che, attraverso la formulazione diagnostica, li porterà ad influenzare drasticamente la vita del paziente, con l’imposizione di un complesso regime di prescrizioni farmacologiche, di accortezze dietetiche e di una nuova prospettiva esistenziale, prima o poi foriera della necessità di provvedere alla propria autonomia motoria con sempre maggiori sforzi organizzativi ed economici.
Nonostante l’enorme sviluppo, negli ultimi 20 anni, degli strumenti diagnostici rivolti alle malattie del sistema nervoso (dalla neurofisiologia clinica alle neuroimmagini iconografiche e funzionali), non è ancora emersa una procedura di oggettivizzazione strumentale del Morbo di Parkinson nel vivente.
Più recentemente è stato proposto un esame di scintigrafia cerebrale selettivamente sensibile per l’attività dei neuroni dopaminergici dei nuclei della base (DaTSCAN) ma anche questo, così come altri approcci neuroradiologici avanzati (Tomografia ad Emissione di Positroni PET, Risonanza Magnetica RM, ecc), si è rivelato più utile per differenziare singoli aspetti clinici all’interno di limitate ipotesi diagnostiche (ad esempio se il tremore sia ascrivibile al Morbo di Parkinson o ad altre patologie neurodegenerative) piuttosto che alla produzione dell’atto diagnostico in sé.
Detto in parole semplici, a tutt’oggi non è possibile sostituire il neurologo clinico con una macchina in grado di emettere una diagnosi.
Gli esami strumentali sono invece di estrema importanza per lo sviluppo delle conoscenze sui fenomeni patologici che si sviluppano durante il decorso della malattia, sia in termini qualitativi, ossia sulle modalità con cui la patologia inferisce sui meccanismi del sistema nervoso, che quantitativi, ossia sul grado di compromissione patologica esprimibile tramite dei parametri d’osservazione matematici.
La formulazione di una diagnosi corretta è d’altra parte una condizione fondamentale, soprattutto se viene svolta nelle fasi precoci della malattia.
Sappiamo infatti che i pazienti trattati appropriatamente sin dall’inizio con il migliore approccio terapeutico sono quelli che avranno in futuro una migliore qualità della vita, sia perché avranno globalmente una migliore risposta dei farmaci attivi nel facilitare la motilità generale sia perché molti dei presidi terapeutici farmacologici, dietetici e occupazionali usati sono stati riconosciuti in parte capaci di rallentare i processi di degenerazione dei neuroni dopaminergici.
Morbo di Parkinson: prevenzione
Per brevità e concisione riportiamo qui un breve estratto delle definizioni di prevenzione del morbo di Parkinson disponibili presso il sito web del Ministero della Sanità Italiana: “La Prevenzione Primaria ha il suo campo d’azione sul soggetto sano e si propone di mantenere le condizioni di benessere e di evitare la comparsa di malattie (…).
La Prevenzione Secondaria attiene a un grado successivo rispetto alla prevenzione primaria, intervenendo su soggetti già ammalati, anche se in uno stadio iniziale (…).
La Prevenzione Terziaria fa riferimento a tutte le azioni volte al controllo e contenimento degli esiti più complessi di una patologia (…).”
Da questi enunciati, alla luce di quanto già detto sulla natura e sulle modalità di contrazione (“etiopatogenesi”) e sul decorso del Morbo di Parkinson, appare evidente che tanto più rimane limitato l’ambito di Prevenzione Primaria, in quanto trattasi di una malattia di causa non ancora nota, tanto maggiori saranno gli spunti utili alle Prevenzioni Secondaria e Terziaria.
Abbiamo accennato a particolari ed inusuali condizioni che vedono l’insorgenza del Morbo di Parkinson come esito determinato da cause certe: la più importante è la possibilità di un Morbo di Parkinson a trasmissione genetica, circostanza piuttosto rara e limitata a famiglie geograficamente isolate e caratterizzate da un discreto grado di promiscuità sessuale intrafamiliare.
Una seconda condizione causale, a diffusione altrettanto circoscritta e limitata da successivi interventi di ordine socio-sanitario, è stata riconosciuta come conseguenza dell’esposizione ambientale a particolari tossici, perlopiù utilizzati nelle industrie e in agricoltura (paraquat, rotenone, 1-metil-4-fenil-1,2,3,6-tetraidropiridina MPTP e sostanze affini), capaci cioè di riprodurre pressoché fedelmente il pattern patologico del Morbo di Parkinson usuale, cioè sporadico.
Gli altri meccanismi teorici emersi sulla patogenesi della malattia sono ricchi di particolari e di riferimenti a fenomeni molecolari assai studiati: i processi di regolazione degli equilibri ossido-riduttivi che si verificano durante l’attività dei neuroni, il ruolo della modulazione di diversi neurotrasmettitori, di mediatori dell’infiammazione e gli stessi meccanismi dell’apoptosi (morte cellulare programmata) individuati nell’azione di fattori molecolari (alfa-synucleine) sono altrettanti spunti per la ricerca di una possibile futura “svolta” nel trattamento preventivo non solo del Morbo di Parkinson ma anche di molte altre malattie degenerative primarie del sistema nervoso.
Per oggi ci si limita a cimentare diverse ipotesi di trattamento preventivo (antiossidanti, “citoprotettori”, modulatori dell’infiammazione della microglia, ecc) i cui risultati clinici appaiono purtroppo ancora troppo deboli se non talora discutibili.
Ben altre prospettive di successo derivano dal settore della Prevenzione Secondaria: sessant’anni di esperienza clinica e di ricerca farmacologica hanno prodotto, come già accennato, un notevole raffinamento della capacità assistenziale dei malati, perlomeno sulle manifestazioni motorie (ossia predominanti) della patologia.
Oggi l’uso combinato di diversi “punti d’attacco” sui processi sinaptici alla base della disfunzione dei neurotrasmettitori (dopamina, ma anche farmaci attivi sui circuiti collaterali al tratto nigro-striatale) permette di “portare avanti” pazienti con età di malattia di oltre 20 anni; la variabilità di risposta al trattamento appare oggi in parte ancora legata a fattori biologici individuali più o meno permissivi (metabolismo intermedio, comorbilità), molto più spesso risulta invece frutto di una maggiore o minore abilità del terapeuta nel dosare e scegliere le combinazioni di farmaci più utili nel susseguirsi dei fenomeni clinici (assai eterogenei) che caratterizzano il decorso della malattia nel singolo paziente.
A questo proposito stanno assumendo sempre più importanza altri aspetti non direttamente farmacologici, come il regime dietetico, l’attività fisica e la ricreazione sociale, di cui il medico può assurgere al ruolo di “direttore”, conseguendo successi terapeutici talora impressionanti.
Discorso a parte va fatto per le manifestazioni non motorie della malattia: le sindromi depressive associate al Morbo di Parkinson richiedono trattamenti ulteriormente personalizzati, spesso necessitando del consulto tra diversi specialisti (neurologi e psichiatri), la disautonomia pone problematiche di difficile soluzione, coinvolgendo a sua volta ulteriori sfere specialistiche (cardiologiche, gastroenterologiche, endocrinologiche), il possibile deterioramento cognitivo può risultare un esito drammatico, purtroppo irreversibile.
Questi ultimi elementi, che possono essere inquadrati nell’ambito di interesse della Prevenzione Terziaria, si intrecciano con le varie combinazioni di patologie età correlate, prime fra tutte le malattie degenerative vascolari.
Su tale argomento è addirittura ovvio ribadire il fatto che tanto più la capacità medica è in grado di rivolgere attenzione al paziente nella sua globalità tanto maggiori saranno le sue potenzialità di alleviarne le sofferenze.
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