PICS: parliamo dell’isolamento durante il covid 19 e della terapia intensiva aperta
Terapia intensiva aperta, a che punto siamo? Normalmente quando una persona si ammala diventa centro di attenzione. Ci si preoccupa, si cerca di offrire sollievo, la si va a trovare portando un regalino
E questa molto spesso è già una cura. Forse non ripristinerà le alterazioni biochimiche alterate all’interno della cellula o non farà regredire un tumore o non sgominerà un attacco di batteri patogeni.
Tuttavia chi riceve la visita vivrà un momento di conforto che non può essere in alcun modo sostituito dai farmaci o dalle procedure chirurgiche.
Il malato che riceve la visita si sentirà pensato, accudito, preso a carico.
Perché il bisogno di guarire da una malattia non annulla il bisogno alla cura, alla relazione, al mantenimento degli affetti.
E l’effetto della “cura-visita” è duraturo, va al di là del momento in cui avviene.
Il malato, nel momento di maggior sofferenza si ricorderà della visita, rivivrà le emozioni positive scaturite da quello “scambio di affetto”; e questo darà sollievo e renderà meno gravoso il momento del dolore.
La terapia intensiva aperta ed il “prendersi cura” che cura
Fare visita cura anche chi si prende cura. Perché anche “il prendersi cura” è un bisogno.
Quale genitore si sentirebbe a posto con la propria coscienza se non facesse di tutto per alleviare la sofferenza e per stare vicino al proprio figlio che soffre?
E lo stesso sarebbe per un figlio nei confronti del genitore malato.
Covid 19 non è solo un virus della famiglia dei coronavirus, è una bestia che ha attaccato l’anima delle persone.
I morti di covid non sono persone malate di una forma bruttissima di polmonite, che muoiono in un letto di ospedale vegliati da amici e parenti.
Non sono genitori le cui mani sono strette dai figli, non sono mariti che si vedono accarezzare la fronte dalle proprie mogli.
I morti di covid sono essere umani, prima di tutto soli.
Gli infermieri si saranno sicuramente sostituiti, per quanto possibile, al ruolo di figlio, genitore, moglie.
Avranno senz’alto accarezzato la fronte dei propri pazienti.
Ma non è la stessa cosa.
Chi sta per morire vuole attorno a sé i propri cari.
E anche quando fosse incosciente o sedato… perché noi non possiamo sapere, in realtà, cosa sta provando in quel momento.
La pandemia dovrebbe averci insegnato quanto abbiamo bisogno l’uno dell’altro e quanto in realtà siamo fragili.
Dovrebbe averci insegnato a offrire modelli di cura in cui venga alleviata la sofferenza promuovendo la relazione dei propri cari negli ospedali.
La costruzione della terapia intensiva aperta
La pandemia dovrebbe portarci a costruire terapie intensive aperte: luoghi dove le famiglie possano stare col proprio caro ventiquattro ore al giorno.
Terapie intensive aperte dove i bambini possano, supportati e preparati, dare l’ultimo saluto al nonno.
Non è fantascienza… Esistono!!! Nel nord Europa è la prassi.
Perché in Italia la sanità non pone al centro l’uomo, ma si preoccupa solo di curare un organo malato?
Perché non possiamo avere anche noi reparti di rianimazione dove il conforto della relazione famigliare si aggiunge al conforto delle medicine?
Esiste una proposta di legge che promuove la terapia intensiva aperta.
A che punto siamo?
Speriamo che questo maledetto covid abbia insegnato qualcosa.
Speriamo che l’aver reso pubblica la fragilità dell’uomo, abbia insegnato l’importanza delle relazioni, soprattutto quando siamo malati.
Articolo scritto da Sergio Calzari
Per approfondire:
COVID-19 e gestione dei pazienti sopravvissuti alla terapia intensiva: gli infermieri e la PICS
Sindrome post terapia intensiva (PICS) e PTSD nei pazienti COVID-19: una nuova battaglia è iniziata