Salvataggio in mare: quali procedure seguire?
Soccorrere i migranti è un compito difficile. Servono preparazione, capacità e strumentazioni adeguate. Dispositivi di salvataggio in acqua come toboga, barelle basket, tavole spinali galleggianti e rescue can risultano indispensabili
Nelle operazioni di salvataggio al largo della Libia e di Lampedusa capita spesso ai team di soccorso di operare con strumenti medicali speciali, creati per riuscire a trarre in salvo persone in difficoltà a rischio di annegamento. Come funzionano e come si usano questi dispositivi? Quali difficoltà devono superare i soccorritori? Non si parla di semplici “volontari” ma di persone specializzate nel salvamento acquatico, che operano per garantire ad esseri umani in balia del mare (e del male) una possibilità di salvezza. Nei prossimi giorni cercheremo di affrontare anche il tema del traumatic stress disorder, una patologia che ogni soccorritore deve affrontare per poter operare al meglio delle proprie capacità. Ma prima, concentriamoci sulla pratica del salvataggio. Per vedere le foto ufficiali del soccorso a tre migranti abbandonati in mare dalla Guardia Costiera Libica, scattate da Pau Barrena per Getty Images clicca qui.
La preparazione è da sempre il primo strumento con cui il soccorritore si rende capace di spostare in là i limiti del successo. Avere quindi una buona preparazione fisica, tecnica e mentale è fondamentale per riuscire ad essere soccorritori in acqua capaci di affrontare le più disparate condizioni. Non a caso un giocatore di basket come Marc Gasol (stella NBA che ha giocato con Danilo Gallinari nei Denver Nuggets) è volontario a bordo della OpenArms, mentre è in pausa estiva rispetto alla dura preparazione atletica del campionato americano. Come è spiegato in molti corsi per attività speciali in acqua, siano per attività di salvamento acquatico che per attività speciali di ricerca e soccorso in acqua, quando si individua una persona in mezzo al mare si hanno diversi rischi correlati. Oltre al primo e principale sospetto di trauma, bisogna pensare che esiste la possibilità di una mancanza di coscienza che può essere associata alla sindrome da annegamento o da semi-annegamento, oppure all’ipotermia poiché l’esposizione prolungata ad una temperatura più bassa porta il corpo a raffreddarsi eccessivamente.
Cosa deve valutare il soccorritore durante il recupero di un migrante in acqua?
L’aggravamento delle condizioni cliniche è dietro l’angolo e non è mai da sottovalutare il problema della movimentazione del paziente, per estrarlo dall’acqua. Quando si affronta il salvamento delle persone a bordo di un natante in difficoltà, o di esseri umani ritrovati in acqua e che danno ancora segni di vita, la possibilità che ci si trovi di fronte ad un paziente traumatizzato vanno prese sempre in cosiderazione. Non si conoscono quasi mai i motivi per cui una persona è in acqua, né tantomeno le cause o le lesioni che possono essere presenti al di sotto dell’acqua, quando la percezione del corpo del paziente è distorta o nulla. Diverse ricerche – alcune anche italiane – hanno evidenziato come la mortalità nei casi di trauma in acqua sia del 50% entro i primi 30 minuti dal recupero, mentre il tasso di mortalità entro le prime 2-3 ore è del 30% ma è evitabile.
Il rischio dell’annegamento nei migranti soccorsi a largo di Lampedusa è spesso correlato al problema dell’ipotermia o di ferite e traumi che riducono la capacità di galleggiamento dei migranti. Quando l’acqua inizia a penetrare nelle vie aeree e non si riesce più a stare a galla, avviene una difesa automatica dell’apparato respiratorio con apnea riflessa e chisura della glottide. Questi possono portare alternativamente a ipossia e riflesso vagale (quindi ad un successivo arresto cardiaco), oppure alla ripresa dell’attività respiratoria con successiva inondazione bronchiale. L’acqua che penetra nei bronchi allo stesso modo impedisce l’ossigenazione del sangue, e porta per arresto cardiaco alla morte del migrante o del traumatizzato.
Come si effettua un soccorso in mare?
La fase di soccorso al disperso in mare è divisa in quattro parti. Sul luogo dell’incidente, durante il trasporto in Pronto Soccorso, in Ospedale e poi successivamente, se richiesto, in sala operatoria o in reparto.
Quando gli operatori SAR dei vari equipaggi che solcano il mare si trovano di fronte ad una imbarcazione in difficoltà oppure a uomini in mare devono osservare diverse situazioni da monitorare.
Prima di tutto va controllata la scena, perché se il ferito si trova su una imbarcazione o su relitti pericolosi a cui può incastrarsi o a cui è incastrato, bisogna procedere ad un recupero cautelativo che impedisca al soccorritore di finire egli stesso in zona di pericolo. Una volta verificata la sicurezza della scena, l’operatore SAR procederà al recupero, che deve essere cautelativo nei confronti del potenziale trauma, ed essere seguito il prima possibile da una valutazione e osservazione clinica primaria. Una volta a bordo del natante il naufrago può essere valutato in modo più approfondito, facendo seguire il trasporto sulla terraferma e la consegna del paziente al Pronto Soccorso.
Il recupero del paziente traumatizzato in acqua è sempre un intervento complesso, in cui devono essere usate cautele notevoli e strumenti medicali adeguati. Tavole spinali galleggianti, toboga in plastica separabili o rescue can di supporto sono alcune delle strumentazioni utilizzate per procedere alla messa in sicurezza del paziente. Se si opera su una persona che collabora, la possibilità di usare una spinale o una toboga galleggianti aumentano perché il paziente può essere messo in posizione distesa, sul pelo dell’acqua, e far scendere il dispositivo sotto il corpo, in modo tale che la spinta di galleggiamento porti completamente il ferito fuori dall’acqua. Se invece il paziente è esanime, la rotazione dello stesso deve avvenire con cautela, e la preservazione del rachide per l’immobilizzazione deve seguire le linee guida internazionali.
Nella primary survey infatti la protezione cervicale e il controllo delle vie aeree sono al primo posto, seguite dalla valutazione dell’attività respiratoria, dalla valutazione della circolazione e del sanguinamento, per poi passare alla scala AVPU e valutare lo stato di coscienza o ad una scala più estesa (come la Glasgow) per una valutazione neurologica. Infine il primo parametro da controllare in casi simili è la temperatura.
Se il paziente non respira ovviamente il primo passo da osservare è quello della ricerca di ostruzioni nelle vie aeree, a seconda della tipologia di professionalità che un soccorritore può mettere in pratica. Se la valutazione dell’attività respiratoria è superata, si passa poi a valutare la qualità dell’attività respiratoria, lo stato di coscienza e poi tutta la situazione corporea del naufrago o del semi annegato. Si va quindi alla ricerca di traumi massiccio facciali, si ispeziona il rachide per eventuali lesioni, si valuta l’espansione toracica e si valuta la presenza di ferite penetranti, si valutano i polsi perifierici, il polso caroideo, si cercano evenutali lesioni addominali, perineali e vescicali, per poi passare agli arti dove si cercano lesioni, fratture o amputazioni.
Purtroppo è da notare sempre più spesso che la mobilitazione dei carichi, ovvero lo spostamento fuori dall’acqua dei feriti e dei semi-annegati, è estremamente difficoltoso e gravoso per il soccorritore, che si trova a dover affrontare sia problemi di natura puramente fisica, che problemi di natura biologica, poiché il soccorso in acqua al traumatizzato porta il soccorritore a contatto con un paziente potenzialmente ferito, sanguinante, o malato. Se poi il paziente da salvare è in stato di shock (come si è visto spesso negli ultimi soccorsi effettuati fra le coste libiche e quelle italiane) il problema raddoppia perché va messa in moto anche una conoscenza e una capacità psicologica di tranquillizzare il paziente, davvero difficile da applicare in tutte le condizioni.
Nel recupero del naufrago in difficoltà ci si trova poi spesso a dover fare i conti con la scivolosità, la scarsità di forza nell’aiuto, la presenza di gasolio o di vestiti impregati di carburante, quindi scivolosi. Questo porta non solo difficoltà pratiche ma anche un aggravio del peso perché un abbigliamento impregnato d’acqua può caricare del 20% il peso del paziente. In caso di annegamenti invernali, si può arrivare a parlare di 60/70Kg di acqua in più da caricare e spostare, oltre al peso del paziente stesso.
Perché si evita il sollevamento verticale del paziente in acqua?
Per questo è fondamentale usare dispositivi di soccorso adeguati all’ambiente acquatico, progettati per avere un galleggiamento adeguato a sostenere il paziente ma non troppo galleggianti da rendere difficile la sommersione del dispositivo. E’ prassi infatti cercare di procedere sempre con il sollevamento in orizzontale del paziente, che ha trascorso potenzialmente molto tempo in acqua e si trova in situazione di ipotermia. La scarsa conoscenza del naufragio, del motivo e delle dinamiche che portano il paziente ad essere in acqua devono suggerire cautela ai soccorritori. Non va dimenticato che il corpo sommerso subisce sempre una pressione idrostatica, che devia il sangue nella cavità toracica e quindi imporverisce fisiologicamente le capacità reattive del paziente. Ci si trova di fronte ad una persona con riflessi fisiologici ridotti, frequenza cardiaca abbassata, ipotermia sviluppata o in fase di sviluppo. Sollevare verticalmente il paziente porterebbe quasi subito alla perdita di coscienza perché la frequenza cardiaca non compensa la carenza di volume. Il rischio che si corre quindi è quello di provocare uno shock, che con tutte le altre possibilità patologiche in corso è estremamente rischioso. Inoltre il fatto che il paziente semi-annegato o il migrante si trovi in acqua, con la possibilità di aver ingerito salsedine, porta ad un maggior rischio di vomito. Si evita quindi di tenere il paziente supino, per evitare che i liquidi gastrici possano essere aspirati e contagiare i polmoni, creando problemi ulteriori. Il movimento di caricamento quindi usato maggiormente, se non si procede all’immobilizzazione, è quello del rotolamento. E’ evidente che un dispositivo facile da usare, facile da sommergere e facile da caricare sia preferibile quando si opera in mare, in caso di maxi emergenza o di sbarchi continui. Anche perché gli operatori devono tutti saper usare una barella toboga o basket, saper usare una spinale ed essere istruiti con corsi BLSD affinché tutte le manovre salvavita possano essere intentate anche sulle persone che si trovano in arresto cardio-circolatorio.
FONTI:
Piano SAR Guardia Costiera Italiana – link
Il recupero del naufrago – Mauro Fornasari – Tecnica
Il trattamento del traumatizzato in Acqua – Michele Pennica – ResearchGate
Soccorso in acqua e soccorso cinofilo, corso OPSA CRI – cri.it