La madre è morta ma il suo bambino è nato e sta bene
Un respiro. Un pianto. Un vagito. Una vita che si schiude tra lacrime intrise di emozione perché accompagnano anche una vita che si chiude.
Il destino di Matteo – lo chiameremo così – è implacabile fin dall’inizio. La gioia del concepimento dura un amen. Tanto separa Serena – anche il suo è nome di fantasia – dal mondo terrestre all’eternità. A rapirla è un sicario subdolo. Il peggiore. Un’emorragia cerebrale fulminante. A Felice – battezziamolo così – crolla il mondo addosso, in una sera di ottobre. La corsa disperata al San Raffaele. E le speranze bruciate da una diagnosi che maltratta anche la fede. Per Serena non c’è più niente da fare. Non diventerà mai la mamma che sognava di essere. Ma lui, Felice, un giorno potrà essere davvero. Felice.
Una battaglia persa non significa la resa. Serena aveva in grembo una vita e la signora con la falce aveva già dato il peggio di sé. Scegliendo quella madre come sua vittima. Il suo corpo non sarà consegnato a un sepolcro. Non ora, almeno. Pardon, non allora. In neurorianimazione e ginecologia accolgono quella sfida per la vita. I reparti diretti dai primari Massimo Candiani e Luigi Beretta hanno predisposto tutto per sottrarre alla morte una preda innocente.
Natale è giorno che evoca nascite. Profuma di bontà. Di miracoli. E ogni tanto i miracoli avvengono. Matteo è l’ultimo dono di Serena. Il più bello per Felice, la parte sana del suo cuore. Quella che non l’aveva tradita. E a lui ha voluto regalare il pensiero più bello. Le lacrime del piccolo Matteo.
I medici ce l’hanno fatta. La vita ha sconfitto morte. E a suo modo ha spiegato a Felice che la speranza vince. Anche quando talvolta tutto sembra perso. Irrimediabilmente. Per sempre. E che, in fondo, da lassù, l’anima della madre che ha lasciato quaggiù il suo corpo a fare da incubatrice a quel feto, ebbene, quell’anima ha guardato giù. E, nell’unico modo che conosceva, ha cercato di cancellare le lacrime dalle gote di Felice. Forse per restituirne altre. Ma di gioia, stavolta. Benché amara.
Per nove settimane il fisico di Serena – ormai fermo in tutte le sue funzioni, ma sostenuto artificialmente e con l’ossigeno necessario al feto – ha alimentato quella vita in embrione. Fino a ieri. Quando le equipe cliniche sono intervenute in un parto cesareo. Matteo è nato così. A Natale. Un chilo e ottocento grammi. Alla settimana numero 32. E ce la farà. Perché a quest’età esiste possibilità di vita autonoma. Senza complicanze. La notte santa, Felice, non la passerà da solo. Il piccolo Matteo non sarà soltanto un neonato in culla. Ma la vita che la sua mamma ha perduto. La testimonianza che la morte non sempre vince. E che il sacrificio è una forma di amore.
Serena ha avuto molti esempi, ma talvolta non servono. Sono lontani. Indipendenti dalle esistenze. Nel 2004 a Catania una donna colpita da aneurisma a 26 anni partorisce nonostante sia in coma. Nel 2006 Cristina Nicole nasce a Niguarda da una donna in rianimazione dopo un’operazione al cervello. Lo stesso accade a Torino a una donna somala. E nel 2010 a Bergamo, quando Gaia vede la luce con la madre in stato vegetativo da 17 settimane. Ieri Serena, a soli 36 anni, ha dato tutto. Vita a Matteo. Gioia a Felice. E i suoi organi a chi, con essi, riacquisterà la normalità. Nell’alto dei cieli, ora riposi in pace.