Spari in tribunale: riflessioni sulle protezioni dei soccorritori.
Quando sono in ambulanza sono ben visibile, devo esserlo d’altronde. Sono vestito completamente di rosso, ho bande catarifrangenti un po’ dappertutto: pantaloni, giacca, cerniere varie. Nello svolgimento dell’attività devo sperare e mi devo fidare un po’ di tutti: dei pazienti, dei parenti, delle forze dell’ordine, degli astanti e via dicendo.
Nella giornata di oggi, a seguito della sparatoria all’interno del Palazzo di Giustizia di Milano, sono intervenuti circa 10 mezzi dell’Azienda Regionale Emergenza Urgenza, tra mezzi di soccorso di base, automediche e veicoli speciali. Tutti, ovviamente, non forniti di alcuna protezione balistica – ovvero giubbotti antiproiettile o elmetti di protezione – secondo la nostra abitudine e i nostri protocolli.
È forse un’esagerazione parlarne? O forse è esageratamente ottimistico non parlarne mai?
Il mondo anglosassone – più che altro gli USA – non è nuovo a questo genere di precauzione, anzi. Basta fare un giro su siti web specializzati e di settore per leggere, non solo di abbigliamento di protezione in vendita, ma anche di appositi corsi di formazione che preparano le squadre del soccorso sanitario ad addentrarsi nella cosiddetta “area calda”, per “trovare, effettuare il triage e trattare pazienti con ferite potenzialmente mortali.” (ecco un esempio recente, tratto dal sito ems1.com).
Le nostre indicazioni operative prevedono, chiaramente, che lo scenario in cui operiamo sia sicuro e libero da ogni pericolo per la nostra sicurezza, ma c’è un punto, un momento in cui questo comportamento – certamente necessario – si trova a stridere con il compito che ci troviamo a svolgere?
Le città italiane e le loro periferie, in fondo, non sono immuni da questo genere di violenza, certamente resa più acuta dalle particolari condizioni socio-economiche in cui molte aree del nostro Paese si trovano a vivere. Per questo motivo, forse, è il caso di adottare qualche precauzione in più, a beneficio di tutti.